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Mobbing

Per aversi «mobbing» occorre dimostrare l’intento persecutorio

Corte di Cassazione, Sez. Lav.

Costituisce «mobbing» la condotta del datore di lavoro, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolva, sul piano oggettivo, in sistematici e reiterati abusi, idonei a configurare il cosiddetto terrorismo psicologico, e si caratterizzi, sul piano soggettivo, con la coscienza ed intenzione del datore di lavoro di arrecare danni al dipendente. Il lavoratore che agisca per l’accertamento del mobbing, dunque, deve fornire la prova dei comportamenti che ritiene mobbizzanti e della esplicita volontà di emarginazione che ne costituisce lo scopo, in vista di una sua espulsione dal contesto lavorativo o, comunque, di un intento persecutorio.
Rappresentano condotte mobbizzanti una pluralità di atti – anche se, singolarmente, leciti – che si risolvono in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, necessari: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso causale tra la condotta aziendale e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’intento persecutorio.

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