Corte di Cassazione, Sez. Lav.
Non è mobbing la normale conflittualità nell’ambiente lavorativo. Nel caso esaminato, una dipendente si era assentata per malattia per oltre nove mesi dopo la fine della relazione sentimentale con il proprio datore di lavoro; la stessa si era infine dimessa per giusta causa, chiedendo la condanna della società al risarcimento dei danni da mobbing. La lavoratrice, in particolare, lamentava che il datore di lavoro avesse assunto a termine un altro dipendente con lo scopo di emarginarla e demansionarla, cagionandole continue crisi di pianto a causa dei suoi atteggiamenti ritenuti aggressivi ed offensivi.
Secondo la Corte, in assenza di presunzioni gravi, precise e concordanti, non si poteva affermare che l’insieme dei fatti denunciati potesse costituire mobbing «per il difetto di sistematicità e reiterazione degli episodi denunziati ed accertati»; i comportamenti denunziati non travalicavano inoltre «la normale conflittualità presente in ogni ambito lavorativo, in questo caso accentuata dalle recriminazioni scaturite dalla rottura del legame sentimentale». Il mobbing, infatti, si ravvisa solo in una condotta datoriale, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro e che si risolva, sul piano oggettivo, in sistematici e reiterati abusi, idonei a configurare il cosiddetto «terrorismo psicologico», e si caratterizzi, sul piano soggettivo, con la coscienza ed intenzione del datore di lavoro di arrecare danni di vario tipo ed entità al dipendente medesimo.
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