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Il trasferimento del lavoratore in una sede lontana non è di per sé abuso del diritto

Corte di Cassazione, Sez. Lav.

Nel caso esaminato, una società aveva affidato delle attività in appalto a terzi; agli undici lavoratori che vi erano in precedenza adibiti erano stati offerti, in alternativa, un incentivo per la risoluzione del rapporto o il trasferimento. Entrambe le soluzioni erano state respinte dai lavoratori i quali, trasferiti, si erano rifiutati di ottemperare poiché le nuove sedi risultavano «molto distanti e disagiate». La società li licenziava tutti per giusta causa e ne seguiva una lite giudiziaria.
Nel confermare la validità dei licenziamenti, la Suprema Corte ha chiarito che la misura decisa dal datore di lavoro, seppure non idonea a salvaguardare gli interessi dei lavoratori, non integra per ciò solo gli estremi di un abuso del diritto. Questo si verifica, solo nel caso in cui il datore di lavoro, pur in assenza di divieti formali, eserciti una propria legittima prerogativa con modalità contrarie ai canoni di correttezza e buona fede ed al fine di conseguire un risultato diverso da quello per il quale il diritto gli è stato riconosciuto. Pertanto, affinché l’esercizio del diritto di trasferire i lavoratori possa essere considerato strumentale e alterato è necessario che il comportamento complessivo del datore di lavoro renda evidente, da un lato, il conseguimento di obiettivi diversi e ulteriori rispetto a quelli prefigurati dalla legge e comporti, dall’altro lato, un sacrificio per i lavoratori sproporzionato ed ingiustificato rispetto ai vantaggi per l’impresa.

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