Corte d’Appello di Milano
La Corte di Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannava il Comune di Roma al risarcimento del danno da mobbing nei confronti di un proprio dipendente. La stessa Corte rigettava invece la domanda di risarcimento del danno alla professionalità, proposta dal lavoratore, ritenendola sprovvista di prova.
Contro tale pronuncia il lavoratore ricorreva alla Corte di Cassazione lamentando come l’accertato comportamento mobbizzante del datore di lavoro, caratterizzato da discriminazione e persecuzione psicologica, avrebbe necessariamente determinato mortificazione morale ed emarginazione professionale, ragion per cui «il danno alla professionalità dovrebbe essere ritenuto almeno presunto».
Tale ricostruzione non è stata condivisa dalla Cassazione, la quale, rigettando il ricorso, ha rilevato preliminarmente come il danno biologico ed il danno alla professionalità abbiano presupposti del tutto diversi, «essendo uno relativo al fisico del lavoratore, mentre (l’altro) attiene alla sua professionalità e cioe all’aspetto della sua prestazione lavorativa». In sostanza, dunque, la Corte ha ribadito il principio per cui «il danno alla professionalità non puo essere considerato in re ipsa nel semplice demansionamento, essendo invece onere del dipendente provare tale danno dimostrando, ad esempio, un ostacolo alla progressione di carriera» e che pertanto «la liquidazione del danno alla professionalità non puo prescindere dalla prova del danno».
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