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L’utilizzo inappropriato dei social network da parte dei lavoratori, durante l’orario di lavoro e nel tempo libero, ha portato in diversi casi fino al licenziamento. In questo articolo ne analizziamo alcuni.

Diversi i casi di licenziamento legati all’uso (inappropriato) dei social network da parte di lavoratori 

Tra i più recenti casi di lavoratori licenziati per aver fatto un uso inappropriato dei social network c’è il post pubblicato su Facebook da un professore romano che, con linguaggio colorito, polemizzava con i genitori che mandano le figlie a scuola vestite in modo ritenuto inopportuno. 

Il post, poi cancellato, ha suscitato indignazione fino a chiedere la rimozione dall’incarico del docente, da parte del presidente dell’Associazione nazionale presidi di Roma.

Un altro caso che ha avuto una certa eco si è verificato lo scorso anno e riguardava un infermiere licenziato per un video, irrispettoso verso un paziente, pubblicato su TikTok. 

“Prof Giorgia” beniamina di Tik Tok 

Molti docenti sfruttano questo social per avvicinarsi ai loro studenti ma molti utenti disapprovano e invocano sanzioni disciplinari o addirittura il licenziamento.

È diventato molto popolare il video con cui la stessa protagonista ha risposto alle provocazioni.

Giustamente, “Prof. Giorgia” sostiene che, in sé l’utilizzo di TikTok non costituisce una causa di licenziamento; ma le condizioni potrebbero verificarsi in base all’uso che si fa del social e ai contenuti che si condividono.

Bisogna aggiungere però che oltre ai contenuti postati, ha grande rilevanza il momento in cui si le piattaforme vengono utilizzate, perché, se non è compatibile con il regolare svolgimento delle proprie mansioni, anche postare contenuti innocenti (e persino limitarsi a consultare il profilo), può costare il posto. 

I controlli del datore di lavoro e l’uso dei social network nel Jobs Act

Il Jobs Act ha previsto, modificando lo Statuto dei lavoratori, la possibilità per il datore di lavoro di esercitare, a determinate condizioni, controlli sulla attività del dipendente utilizzando la tecnologia. 

Alla base della normativa ci sono esigenze, non necessariamente contrapposte, ma che non sempre riescono a convivere. Da una parte la tutela della privacy del lavoratore, dall’altra l’esigenza di conservazione dei beni aziendali e di verifica della efficienza del lavoro, la cui mancanza può far venir meno il rapporto fiduciario tra il lavoratore e il datore di lavoro.

Su quest’ultimo vige l’onere di informare il lavoratore sui comportamenti concessi o meno nell’utilizzare gli strumenti a sua disposizione. 

In particolare, per l’uso di internet e dei social network è opportuna l’adozione di una policy interna che sia redatta in modo chiaro, aggiornata periodicamente e correttamente resa nota ai lavoratori.

La policy dovrà chiarire:

  • quali comportamenti sono da evitare navigando sul web;
  • quando, durante le ore di lavoro, il lavoratore può usufruire del servizio di posta elettronica e della connessione alla rete per ragioni personali; 
  • quali dati e credenziali rimangono memorizzati e per quanto tempo sui dispositivi aziendali utilizzati;
  • quali controlli, conformi alla legge, il datore ritiene opportuno effettuare indicandone la periodicità, le motivazioni e le modalità di attuazione; 
  • quali conseguenze, anche disciplinari, riserva ai trasgressori; 
  • quali espedienti vengono adottati per evitare di interrompere l’attività lavorativa in caso di assenza del lavoratore, come il ricorso a sistemi di risposta automatica alle e-mail ricevute; 
  • quali strumenti o servizi dell’azienda possono essere utilizzati dal lavoratore per ragioni proprie dietro pagamento; 
  • quali comportamenti devono rispettare coloro che sono tenuti al segreto professionale; 
  • quali precauzione sulla sicurezza dei dati e dei sistemi devono essere adottate.

Al datore spetta anche l’onere di impegnarsi ad utilizzare i sistemi che minimizzino l’uso di dati identificativi adottando tecnologie PET (Privacy Enhancing Technologies).

I giudici e i casi di licenziamento dovuto all’uso dei social network 

Sono numerosi casi nei quali i giudici di merito e la Suprema Corte si sono occupati di questo tema. Uno emblematico è rappresentato da quello che ha dato origine alla sentenza 27939 del 2021 con la quale si è stabilita la legittimità del licenziamento di un dipendente che insulti l’azienda per cui lavora attraverso i Social Network. La Suprema Corte, infatti, ha respinto l’appello del lavoratore che sosteneva che gli insulti, pubblicati su Facebook, non fossero pubblici.

In altri casi, sono state contestate infrazioni di tipo disciplinare perché i dipendenti hanno trascurato le proprie mansioni per dedicarsi a telefonate, chat e per consultare i Social Network venendo meno così ai loro doveri.

Si sono verificati però anche episodi che hanno portato al licenziamento nonostante i Social siano stati utilizzati al di fuori del posto e dell’orario di lavoro. 

In questi casi la piattaforma ha fornito la prova inconfutabile che il dipendente ha simulato una malattia, perché durante l’assenza si dilettava in attività̀ ricreative e di divertimento condividendo foto e video sul proprio profilo. Uno di questi è trattato dalla Corte Suprema di Cassazione, Sezione Lavoro, n. 6047 del 13 marzo 2018 che riporta il caso di un dipendente assente per malattia che si è esibito in concerto con la sua band.

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